C'è un'esplosione di voci nere e autoctone – maschili e femminili – nel mondo contemporaneo, che costituisce un fenomeno innovativo. Uno dei suggerimenti di papa Francesco al Sinodo per l'Amazzonia è stato quello di provare ad avere la capacità di ascoltare il discorso dei popoli autoctoni e tradizionali. Lo afferma persino in "Querida Amazônia" e precisa che, molte volte, l'estinzione di tale tradizione culturale è pari o più dannosa per l'umanità dell'estinzione di una specie animale o vegetale.
L'anno scorso ho iniziato a leggere molta letteratura di autori indigeni, anche se non ho ancora trovato editi molti testi o libri di autori indigeni. Certo, ho seguito con attenzione discorsi come quelli di Txai Suruí all'ONU, o di giovani donne indigene che si trovano in vari campi della società e che s’mpegnano a difendere gli interessi dei loro popoli. A volte ho il privilegio di ascoltare direttamente donne come la cacique Lucélia Pankará, di Itacuruba, Pernambuco. Sento però che gran parte della sinistra ha enormi difficoltà ad assimilare questi pensieri e questi stili di vita. Sono altre matrici di civiltà e non rientrano nei nostri schemi mentali occidentali già consolidati.
Leggere e ascoltare persone come Ailton Krenak, Davi Kopenawa, molti altri e altri ancora, è come entrare in un altro mondo di lettura. Con loro lasciamo la noiosa logica occidentale, con i suoi ragionamenti freddi e distanti dal resto dell'umanità, soprattutto da parte degli intellettuali organici al capitale. Queste letture (Krenak-Kopenawa) sono la ricchezza in cui ci immergiamo. Meglio ancora, non fanno che confermare che la questione di questi popoli non è solo del passato, ma anche del presente e per il futuro. "Coloro che vivono ai margini del pianeta", nella fantastica espressione di Ailton Krenak, hanno molto da dire all'umanità dominante in questo momento cruciale della storia umana sulla faccia della Terra.
Quest'anno, in particolare, ho iniziato a leggere libri di letteratura di autori afro-brasiliani. Il libro iniziale è stato “Lugar de fala”, di Djamila Ribeiro. E nel libro della Ribeiro vi sono citati diversi autori, principalmente donne, che aprono un campo immenso per comprendere queste voci nere e femminili dal loro punto di vista. Non sono molto per gli anglicismi, ma mi piaceva l'espressione. Oppure, come dice Leonardo Boff, “ogni punto di vista è la vista di un punto”. Quindi parlano del loro posto nella società e nella storia. Come dico spesso di me stesso, “noi bianchi non sapremo mai cosa significa essere neri o indigeni in questo Paese chiamato Brasile”. E vedo il contraccolpo di queste riflessioni anche nella Pastorale socio-ambientale, quando le donne che realizzano queste pastorali interrogano gli uomini e i loro compagni per il perpetuarsi sessista e discriminatorio all'interno della Chiesa e delle stesse pastorali.
L'umanità cosciente cerca due strade: i privilegiati vogliono mantenere il loro posto e, pur sapendo che stiamo andando verso l'abisso, preferiscono andare dritti, come pecore verso la scogliera. Pensano che le loro ricchezze e il loro potere militare li salveranno da un tracollo globale. Ce ne sono altri, anche consapevoli, che almeno cercano di “rinviare la fine del mondo”. È in questo campo che si trovano tanti pensatori del mondo indigeno e nero.
Sono un uomo bianco che ha sposato una donna nera. Abbiamo avuto due figlie e due figli, alcuni sono bianchi altri sono di colore. Da lei ho imparato molto sulle sottigliezze del razzismo. Ha perso la vita a causa del Covid. Ma voglio continuare ad ascoltare ciò che questi pensatori hanno da dirci affinché “il cielo non cada sulle nostre teste” e sulle teste delle generazioni future.
(Testo di Roberto Malvezzi)
a cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)
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