"Da defunta, eccomi davanti al Signore con due sporte in mano:
in una sporta ci sono i miei peccati, mentre l’altra (assai piu’ pesante) contiene le grazie ricevute nella mia vita. E diro’: Signore, puoi forse negarmi il tuo paradiso? No, non puoi...”.
Chi e’ costei con tanto ardire di fronte a Cristo giudice? E’ Bakhita.
Bakhita racconto’: “Ero una bambina di 8 anni. Un giorno, mentre ero in campagna, comparvero due tipi che si impadronirono di me. Poiche’ non avevo un nome, mi dissero: Ti chiameremo ‘Bakhita’, cioe’ ‘Fortunata’. Quei due erano arabi, cacciatori di schiavi...”.
Nata nel 1869 nel villaggio di Olgosa, regione del Darfur (Sudan occidentale), la protagonista della nostra appartiene alla tribu’ dei Daju. I Daju sono allevatori di bestiame. Costruiscono le loro case anche come “sicurezza”, per difendersi dai razziatori di persone da vendersi in piazza nei mercati degli schiavi.
Dopo il rapimento, Bakhita fu rinchiusa in una stanza buia, senza finestre, ricevendo solo un po’ di cibo. Trascorso un mese, venne un tale che consegno’ la bambina ad un mercante di schiavi.
Costui organizzo’ subito una tratta di otto schiavi: tre uomini, altrettante donne, Bakhita e una bambina piu’ piccola di lei. Le persone adulte trasportavano pure pesanti bagagli per chilometri e chilometri, camminando incatenate fra loro al collo che sanguinava, mentre i sorveglianti non risparmiavano loro le frustate.
“Io e la bambina piu’ piccola di me non eravamo incatenate - preciso’ Bakhita -. Camminavamo accanto ai sorveglianti, per fermarci di tanto in tanto per mangiare un po’. Allora le catene al collo venivano tolte, per incatenare i piedi, affiche’ gli schiavi non fuggissero. Noi due, bambine, venivamo incatenate solo di notte”.
Concluso il tragitto, gli schiavi furono chiusi in uno stanzone in attesa di essere venduti. I primi in vendita furono gli ammalati ed anziani.
Bakhita e l’altra bambina non furono vendute, bensi’ vennero condotte in un’altra stanza. La porta fu chiusa, ma senza serratura. E le bambine se la dettero a gambe fuggendo. Stremate, si fermarono per riposare.
Ed ecco arrivare un tale che chiese loro:
- Bambine, dove andate?
- Andiamo dai nostri genitori.
- Dove stanno i vostri genitori?
- Stanno la’, dietro la montagna.
“Non temete, bambine - continuo’ quel tale -. Vi portero’ io a casa. Ora venite con me e riposatevi”.
Entrarono in una stalla e mormirono sulla paglia per alcuni giorni, finche’ arrivo’ un mercante di schiavi che le compro’.
Inizio’ un’altra tratta. Tra gli schiavi c’era pure una mamma con bimbo al seno. Il latte della madre era scarsissimo, data la fatica e il calore durante il lungo viaggio. La donna faticava a tenere il passo degli altri schiavi. Spesso si fermava affranta, con il bimbo che piangeva disperatamente.
Quella volta’ si fermo’ un po’ di piu’. Subito sopraggiunse il sorvegliante furioso: afferro’ il bimbo e lo scaravento’ contro una roccia. Poi si accanni’ contro la madre, frustandola affiche’ riprendesse il cammino. Ma non ci fu verso: la mamma rimase accanto al figlio morto, finche’ mori’ anche lei.
Dopo quel delitto, la tratta continuo’ nel silenzio e nell’angoscia. Sembrava interminabile.
Finalmente comparve all’orizzonte El Obeid, una citta del Sudan. Qui giunti, gli schiavi furono divisi in gruppetti per essere venduti in piazza.
Bakhita e la sua compagna furono acquistate da un ricco possidente di schiavi. Diventarono serve di due figlie bizzose di quel ricco. Un giorno Bakhita non servi’ bene la sua padrona, e venne pestata sul petto fino quasi a soccombere.
Successivamente le due bambine furono cedute ad un generale turco, che viveva nella regione del Cordofan. Qui divennero le serve della moglie del generale, nonche’ di sua madre anziana. Le bambine erano alle dipendenze delle due donne in tutto: lavarle, ungerle con olio, vestirle, conciare i capelli. Compiti all’apparenza facili. Ma non troppo, giacche’ le padrone non erano mai soddisfatte delle prestazioni ricevute.
“Rimasi nella casa del generale per tre anni - spiego’ Bakhita -. Ma non trascorse un giorno, dico un giorno, che non fossi punita. Una percossa, e subito un’altra e un’altra ancora. Un martirio senza fine”.
Finche’ Bakhita, esausta, decise di scappare. Ma il piano fu scoperto, e la bambina fini’ incatenata per un mese intero.
Lo schiavo, se si ammala, e’ abbandonato a se stesso senza medicine. Se muore, viene buttato nella savana e lasciato putrefare come un animale.
Inoltre viene marchiato a sangue con le insegne del padrone. E’ uno stregone ad eseguire l’operazione usando coltelli affilati e sale. Una crudelta’. Il marchio fa si’ che lo schiavo sia proprieta’ indiscussa del padrone e acquisti un prezzo piu’ alto nel mercato.
Anche Bakhita fu marchiata: 6 marchi ai seni e 60 nella pancia, sulle gambe e sulle braccia. Durante la marchiatura la bambina svenne per il dolore atroce.
“Quel giorno non morii - commento’ Bakhita -, solo perche’ il buon Dio aveva un piano speciale per me, misera schiava”.
Anno 1887. Dieci anni sono trascorsi da quel giorno infausto allorche’ la piccola Bakhita venne rapita da due cacciatori di schiavi. Oggi “Fortunata” e’ una ragazza di 18 anni, ancora al servizio del generale turco. Ma costui ha deciso di ritornare in Turchia.
Strada facendo con Bakhita, il generale mi sosto’ a Kartum, capitale del Sudan, dove alloggio’ in un albergo. Qui incontro’ Callisto Legnani, ambasciatore d’Italia in Sudan.
La ragazza servi’ loro il te’... e piacque all’ambasciatore, che decise di acquistarla. Questa era la quinta volta che Bakhita veniva venduta e comprata.
La moglie dell’ambasciatore accolse in casa Bakhita. Le fece fare il bagno, ne concio’ i capelli corvini, la vesti’ con eleganza ed esclamo’: “Quanto sei bella, ragazza mia!”.
Bakhita visse due anni nell’ambasciata italiana a Kartum in serenita’. Un’esperienza completamente nuova.
Dopo due anni, i coniugi Legnani ritornarono in Italia. E Bakhita venne data in “regalo” ad Augusto Micheli, amico dei Legnani.
Una figlia di Micheli frequentava il catecumenato delle Suore di Canossa (1), vicino a Venezia, non essendo ancora battezzata. Bakhita ne segui’ le orme.
“Frequentavo le lezioni di catechismo tenute da una suora - ricordo’ Bakhita -. Fu un’esperienza straordinaria, perche’ la suora esigeva che io, pagana, mi sentissi completamente libera. E fu felice quando avverti’ che non ero soggetta ad alcuna costrizione”.
Il 9 gennaio 1890 la catecumena fu battezzata con tre nomi: Guiseppina, Margherita e Fortunata, ossia “Bakhita”. Quel giorno le campane suonarono a festa come non mai, mentre i fedeli accorsero a centinaia, tutti bramosi di vedere la “moreta” cristiana.
Evento impensabile allora in Italia.
Intanto un altro “evento impensabile” agitava il cuore di Bakhita: diventare suora. “Ma e’ mai possibile che una misera africana come me possa essere suora?” si domandava Bakhita confusa.
Prima di emettere i voti di poverta’, castita’ e obbedienza, Bakhita venne esaminata da Giuseppe Sarto, patriarca di Venezia (2), il quale le disse: “Sii serena, Bakhita. Gesu’ ti ama e tu ricambia il suo amore”.
A partire dal 2 febbraio 1896, il nostro personaggio e’ pure “suor Giuseppina Bakhita” delle Suore di Canossa. In quell’occasione la nuova suora prego’ cosi’: “Signore, come vorrei ritornare in Sudan per annunciare alla mia gente il tuo amore! Come vorrei raggiungere tutti i poveri dell’Africa e raccontare loro tutto cio’ che tu, Signore, hai fatto per me!”.
In Italia suor Bakhita visse soprattutto a Schio, provincia di Vicenza, amata da tutti.
Durante la prima guerra mondiale (1914 - 1918) il convento delle Canossiane venne adibito pure ad ospedale militare. Suor Bakhita serviva i soldati feriti con dedizione indicile, mentre tutti si domandavano ammirati dove trovasse tanta energia quella “moreta”.
Seconda guerra mondiale (1939 - 1945): l’allarme dei bombardamenti degli aerei invitava tutti a cercare in fretta un rifugio sicuro. Ma suor Bakhita continuava il suo servizio “all’aperto” imperterrita. Di fronte a tanto coraggio, molti dicevano: “A noi non succedera’ nulla, perche’ siamo con la ‘moreta’”.
Un giorno caddero oltre 50 bombe, ma nessuna esplose, perche’ c’era lei, la “moreta”.
La sedia a rotelle, poi...
L’ultimo tratto di vita di suor Bakhita fu un martirio. La tormentavano dolori acuti nella schiena, nelle gambe e aveva acqua nei polmoni. Fini’ su una sedia a rotelle.
Non pregava piu’ a voce alta come le altre suore, perche’ la lingua era tumefatta. In chiesa fissava in silenzio il Tabernacolo o Gesu’ in croce.
Un giorno un giovane le chiese’: “Suor Bakhita, che faresti oggi se incontrassi coloro che ti resero schiava per 10 anni?”. E Bakhita: “Mi inginocchierei davanti a loro e bacerei le loro mani, perche’ oggi non sarei ne’ cristiana ne’ religiosa se non mi avessero rapito”.
“Si’, sono colma di gioia. Maria, madre nostra Maria...”. Fuorno le ultime parole di suor Giuseppina Margherita Fortunata su questa terra.
Bakhita entro’ nella “Casa del Padre” l’8 febbraio 1947. Il funerale fu un trionfo di popolo.
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