Chi ha avuto modo e possibilità di frequentare i Missionari della Consolata sa bene cosa significhi per loro la data del 20 giugno in calendario.
E’ il giorno della festa di Maria Santissima Consolata, la Vergine amata in particolare dai torinesi, ma ben nota ormai in tutti i continenti (eccezione fatta per l’Australia) in quanto fatta conoscere e venerare dai missionari stessi del beato Allamano, il loro fondatore, ovunque essi, partiti da Torino (Casa Madre), siano giunti e abbiano impiantato la “missione”.
Ebbene, in occasione di un 20 giugno di alcuni anni fa, correva l’anno 1985, fu invitato presso il Centro di animazione missionario di Olbia il colombiano padre Luis Augusto Castro Quiroga (foto in alto) dall’allora superiore di casa , che era il trentino padre Silvio Lorenzini.
Dopo i tre giorni dedicati nel pomeriggio alla novena alla Vergine, nella piccola chiesetta della casa dei missionari, quasi sempre affollatissima, era consuetudine fare pranzo assieme, cioè i missionari operanti in loco, l’ospite venuto da fuori e alcuni collaboratori, quelli più stretti, prima della concelebrazione della eucaristia pomeridiana dell’ultimo giorno di festa.
Eucaristia celebrata con la presenza del vescovo della diocesi locale e dei sacerdoti delle parrocchie cittadine, cui era invitata ovviamente la cittadinanza per intero tramite avvisi nelle parrocchie stesse e i passaparola amichevoli dei più motivati.
Padre Castro Quiroga, non ancora vescovo (lo sarà anni dopo nella “sua”Colombia) in quel periodo era in Italia con l’incarico di visitare più Paesi all’estero per poter eventualmente, in seguito, decidere con il Consiglio se ci fossero le condizioni idonee per impiantarvi o meno la “missione”.
Infatti era rientrato da pochi giorni da un viaggio in Corea del Sud, dove di lì a poco si sarebbe aperta, effettivamente, una nuova casa dei missionari della Consolata.
In quel periodo io ero animatrice missionaria di un gruppo di giovani in Olbia e padre Silvio Lorenzini, che sapeva della mia iniziale recentissima collaborazione alla rivista “Missioni Consolata”, allora diretta da padre Francesco Bernardi, mi offrì l’opportunità d’incontrare, a casa mia, nella mattinata dell’ultimo giorno, padre Castro Quiroga.
In modo che tu possa conoscerlo e perché no - egli mi disse - e possa eventualmente intervistarlo.
Così fu e fu un incontro da subito molto cordiale e ricco d’informazioni inedite.
Se non ricordo male io avevo scritto in precedenza , e sempre per la rivista, un articolo breve sulla motivazione dei giovani alla missione (per me erano appena i primi passi in questo genere d’impegno) e sull’espandersi della stessa, cioè della missione, in nuove terre.
Così con padre Castro la conversazione si incentrò sull’Asia, che aveva visitato da poco, e sui nuovi possibili territori di missione.
In quel tempo si cercava, e anche con molta insistenza, da parte dei cattolici la possibilità di un accesso alla lontana e popolosa Cina, dove si pregava e si celebrava in clandestinità.
Poggiato nel tavolo del mio soggiorno, intanto era rimasto, dimenticato dalla sera precedente, un saggio di Hans Urs von Balthasar, uno degli ultimi usciti in quella data, che incuriosì parecchio il nostro missionario, meravigliato che potessero interessarmi certe letture di teologia.
Pertanto aprimmo pure una parentesi sui miei studi filosofici degli anni universitari e di certi interessi che, nei limiti del tempo a mia disposizione, continuavo a coltivare come potevo.
Durante il pranzo, nella casa dei missionari, la conversazione acquisì invece un tono molto più confidenziale, in quanto il ghiaccio era ormai rotto da diverse ore.
E l’argomento prioritario di padre Castro fu, come non è difficile immaginare, la Colombia, la sua terra d’origine appunto, con i mille e uno problemi incombenti.
Dai morti ammazzati quotidianamente nelle strade,ai trafficanti di droga, alla guerriglia con i sequestri e i suoi terribili ricatti ( appunto le cosiddette note Farc).
Poi parlò della propria famiglia ( padre Castro è figlio unico), una famiglia benestante, spiegò, in un contesto purtroppo di forte povertà per quei tempi. E fece intuire il perché della sua scelta vocazionale.
Una scelta motivata, sia pure in parte, dalle caotiche circostanze politiche della sua Colombia.Un impegno di giustizia cercato alla luce di una fede forte e sincera, in difesa strenue di chi è messo nelle condizioni di non potersi affatto difendere e che può soltanto accettare di subire passivamente.
E questo spiega molto, io azzarderei , dell’impegno profuso in tutti questi anni e persino ultimamente (mi riferisco ai ripetuti viaggi all’Avana e anche a quello penultimo nel corso della recente visita di Papa Francesco a Cuba) del nostro per riportare la pace in Colombia.
Spiega sopratutto chi è l’uomo Luis Augusto Castro Quiroga, oggi presidente della Conferenza episcopale colombiana, un titolo piuttosto altisonante per chi non lo conosce, accanto al missionario autentico (si ricordi la sua vicinanza di vescovo-fratello maggiore alla prima esperienza nel difficile Caquetà colombiano tra gli indios e le battaglie di questi per la sopravvivenza) e allo studioso ed educatore negli anni di tantissimi giovani (molti dei suoi libri in Italia sono pubblicati dall’EMI di Bologna).
In conclusione, a parte un altro fugace incontro a Torino, qualche anno dopo, capitato per caso nel corso di un convegno organizzato sempre dai missionari della Consolata, io non ho più incontrato padre Castro.
Ma non l’ho mai dimenticato. Non ho dimenticato quello che era il suo entusiasmo nella difesa di quei valori forti in cui credeva e di cui non faceva mistero con i suoi interlocutori.
E l’ho seguito, per quanto possibile, attraverso i resoconti di politica internazionale e di vita missionaria tutte le volte che ho potuto.
E sono profondamente felice della sua gioia di oggi per la pace raggiunta in Colombia dopo tanti anni e tanti sforzi.
Sforzi anche della Chiesa colombiana in toto certamente ( non si vuole omettere nulla) ma pure suoi personali.
Ogni tanto mi capita di rileggere la dedica che, in quel giugno dell’85, a Olbia, appose a un suo libro (Vocazione e Missione) di cui mi fece dono nell’occasione e che recita così : “Possano queste pagine accompagnare il formidabile impegno missionario universale di cui Marianna rende testimonianza con la sua vita e i suoi scritti”.
Non c’è stato augurio più bello, in tutta sincerità, che io abbia mai più ricevuto. Da allora ho continuato, accanto alla preghiera, ogni giorno (e sono tanti) a scrivere con interesse di missione, di missionari, di popoli, di giustizia, di ricerca della pace.
Il farlo mi fa sentire parte della grande famiglia missionaria, al di là delle etichette e delle distanze geografiche (location della “missione” è il mondo tutto), e la cosa mi rende tutte le volte immensamente felice . Credo si tratti di una “differente” vocazione ma pur sempre di una vocazione. E padre Castro, secondo me, lo aveva intuito.
Marianna Micheluzzi
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