Emma era una ragazzina di paese. Senza pretese, né grilli per la testa. Un paese, quello suo, piuttosto piccolo e prevalentemente agricolo. Del nord della nostra penisola.
Pianeggiante e solo appena lievemente collinare, attraversato da un fiume ben noto nella storia d’Italia, che però in estate infestava l’aria con nugoli di zanzare e d’ altri insetti, che lasciavano il segno sulla pelle agli sprovveduti paesani di sangue dolce.
Una terra, benedetta e maledetta, ricca di vigne, che più avanti negli anni avrebbero dato (e nessuno se lo sarebbe mai immaginato) vini pregiati , che sarebbero stati conosciuti e apprezzati in tutto il mondo.
La semplicità e la bontà d’animo di Emma erano sue doti indiscusse. Nessuno avrebbe potuto dire di lei il contrario. Non si sottraeva mai a dare una mano in famiglia per quelli che erano i lavori di casa.
Fossero anche quelli più pesanti. E proprio per risparmiare sua madre, che amava più dei suoi stessi occhi. E, cosa non trascurabile, mai l’avresti potuta sentire lamentarsi d’essere stanca.
Era un’estroversa, amava la musica e il canto. E le sarebbe piaciuto pure andare a ballare se glielo avessero permesso.
Ma quel brontolone di suo padre non voleva saperne di accontentarla e faceva finta di non ascoltare le sue richieste.
Di domenica e nelle feste comandate tuttavia non trascurava mai la messa ,cui partecipava assieme alle compagne , sue coetanee, e che era l’unica occasione per un giorno, o meglio per una mattinata, di poter indossare l’abito delle grandi occasioni.
Di abiti in verità non ne aveva poi molti nell’armadio, unico, che condivideva con fratelli e sorelle. Ma buoni c’erano quello invernale di lana pesante a quadrettoni con colletto di piquet bianco, ricamato a punto smerlo, e quello estivo di una seta blu a pois gialli con le mezze maniche e la gonna a campana.
Regali entrambi della madrina.
Emma era molto bella. Capelli castani, un bel ovale, occhi espressivi e un fisico armonioso.
Quando usciva da chiesa ,di domenica, c’era, da un po’ di tempo in là, un ragazzo che l’osservava come si osserva qualcuno con cui avresti intenzione di approcciare discorso.
E , a dirla tutta, se la mangiava con lo sguardo, che era fisso fisso su di lei come, in quell’istante, non ci fosse altro essere al mondo.
Si chiamava Marino, lei lo conosceva dai banchi di scuola, e lavorava, il giovane, i campi con suo padre nelle terre del maggiorente del paese.
Era un ragazzo intelligente, concreto e, cosa che non guastava affatto, di bell’aspetto.
Molte ragazze lo avrebbero voluto prima per fidanzato e poi come marito. Ma Marino non si faceva facilmente catturare da certe moine femminili e aveva già deciso che la giovane Emma avrebbe dovuto essere la sua compagna nella vita e al contempo la madre dei suoi figli.
Unico ostacolo era superare quel burbero del padre, che forse per la figlia avrebbe sperato qualcosa di meglio.
Ma ,come si dice, la perseveranza dà sempre buoni frutti. E Marino ,ogni domenica, era nella piazza della chiesa per vedere passare Emma all’entrata e all’uscita dalla funzione.
Pure Emma ormai aveva capito che quel bel giovanotto era lì per lei. E questo perché Marino non si lasciava fermare né da pioggia, né da grandine, né da neve. E nemmeno d’estate dall’afa e dal sole cocente.
E poi aveva preso l’abitudine di andare in passeggiata in certe ore dalle parti di dove abitava Emma.
Così la ragazza aveva cominciato ad attendere quei passaggi e, a ogni occasione non mancata, il cuore in petto batteva più forte del solito.
Poi anche gli sguardi cominciavano ad essere più prolungati e naturalmente ricambiati.
Marino era al settimo cielo e cercava così di curare sempre più il suo aspetto per essere apprezzato e amato da Emma.
Venne il giorno della grande decisione per Marino, il quale aveva avuto ormai più di un incontro in segreto con Emma, nel corso dei quali aveva potuto dichiararle i suoi sentimenti.
Innamoramento e amore,che erano ovviamente ricambiati da lei.
Il problema tuttavia era quello di presentarsi dai genitori della ragazza e palesare le sue intenzioni.
Erano tempi duri per l’Italia. Nell’aria c’era sentore di una guerra che prima o poi sarebbe stata realtà anche nel paese di Emma e di Marino.
E i soldi erano sempre maledettamente pochi, perché il padrone di Marino per cui lavorava a giornate non era certo generoso. E non lo era neppure con i prodotti della terra. Preferiva far marcire la frutta sugli alberi piuttosto che darla ai suoi lavoranti. E questo naturalmente mandava in bestia Marino, che era un giovane di sani principi e che non tollerava le ingiustizie.
Ad Emma avrebbe potuto offrire per il momento una stanza nella casa paterna, la cucina in comune con i suoi familiari, sua mamma e i suoi fratelli, e poi la sua donna avrebbe dovuto lavorare di necessità con lui nei campi un giorno che fossero divenuti marito e moglie.
Per mettere su casa in proprio ci sarebbe voluto del tempo, tanto tempo, e molti sacrifici.
Il matrimonio venne celebrato in chiesa dal parroco, che ben conosceva i due e le loro famiglie, qualche mese dopo il fidanzamento e ci fu solo un pranzo con i parenti di entrambe le parti nell’aia del casale dove abitava Marino. Ma nella circostanza non mancò nulla. Dalle carni ai dolci, alla pasta fatta in casa dalle donne con un sugo curato da mani esperte tanto da leccarsi i baffi. Polenta a volontà per chi proprio non potesse farne a meno. E naturalmente il vino della casa ben augurante per gli sposi.
La prima notte di nozze Emma e Marino la trascorsero in paese. E , il giorno dopo, un amico gentile diede loro un passaggio sino al capoluogo di provincia, dove avrebbero trascorso qualche giorno ospiti da un parente , concedendosi qualche passeggiata, qualche pranzetto in trattoria e qualche giro per chiese e monumenti e per bei palazzotti da poter osservare ammirati col naso all’insù.
Emma era curiosissima di ogni cosa in città e cercava d’immagazzinare in memoria le immagini di tutto ciò che vedeva.
Poche volte era stata con i suoi in città. In genere era accaduto quando bisognava recarsi dal dottore, il medico curante, che non arrivava in paese, o per fare compere importanti per la casa e per la campagna.
Ma i bei giorni passano in fretta e gli sposi ben presto fecero ritorno al paese e alla vita di tutti i giorni, non senza aver mostrato prima, ai parenti tutti, qualche modesto acquisto fatto nella città e la foto scattata da un fotografo professionista a ricordo del loro viaggio di nozze.
Trascorsi i canonici nove mesi, ad allietare l’unione di Emma e Marino arrivò un vispo maschietto, cui la coppia diede il nome di Giuseppe.
Giuseppe,nel loro contesto, veniva chiamato Bepi ed era proprio un bel bambino, cui non si lesinavano complimenti.
Intanto le ombre scure di un possibile conflitto armato s’addensavano sempre di più anche nel tranquillo paesotto dei due giovani novelli sposi.
La vita si faceva, ogni giorno che passava, più dura. Mancavano i soldi ma mancavano anche tante altre cose.
Si potevano comperare generi alimentari solo a prezzi esosi, tipo “borsa nera”, specie zucchero e caffè. Ed Emma, parsimoniosa quale era, faceva miracoli per far bastare la paga di Marino da una settimana all’altra.
E questo quando il padrone era puntuale nel pagare la propria manodopera. Diversamente era un continuo arrangiarsi e fare rinunzie.
Sempre Emma alternava il lavoro dei campi con Marino, alla cura del loro orto familiare, alle faccende di casa assieme alla suocera e, di pomeriggio, trascorreva qualche ora alla macchina da cucire per confezionare da abiti dismessi degli abitini per il piccolo Bepi e rimediare le magagne agli abiti sempre più lisi del suo uomo.
Un brutto giorno, mentre la radio aveva preannunciato l’imminenza dell’entrata in guerra dell’Italia, arrivò anche la chiamata alle armi per Marino. E, a quel punto, non c’era altro da fare che obbedire. Emma inizialmente non accettò la separazione ma poi dovette farsene una ragione e continuare a vivere la quotidianità con Bepi e con la protezione della famiglia allargata di Marino.
I suoi li vedeva sempre più di rado in quanto non aveva quasi mai tempo per se stessa presa dal bambino e dal lavoro nei campi con i suoceri.
Marino era partito ma non dava notizie di sé ( un po’ non era facile per quei tempi comunicare, un po’ lui era fatto così) e a mamma e moglie unica consolazione era quella di pregare per lui e che nulla di male gli potesse nel mentre accadere.
Tracorsi alcuni mesi, Emma, una mattina, avverte nuovamente nausea e un lieve capogiro. Non c’era molto da almanaccare. Era incinta di un secondo figlio. Ne era certa.
Era accaduto la notte prima della partenza.
Triste per la lontananza del suo uomo ma felice ad un tempo per questo dono, la nostra Emma tirava avanti cauta, come un po’ tutti, in un paese che, come tanti, era segnato dalla guerra e da tante inimicizie ideologiche tra la gente, che purtroppo qualche volta lasciavano il segno.
E, mentre metteva ordine al futuro corredino del neonato,nei rari momenti liberi, si dilettava per svagarsi un po’ a cercare un nome che potesse andare bene per il nascituro.
Era molto devota a San Francesco, il santo di Assisi, e così pensò che,o maschio o femmina che fosse, il bambino o la bambina, che sarebbero nati, avrebbero portato il suo nome.
E puntuale, dopo nove mesi esatti, nacque un altro bel maschietto, cui fu dato il nome di Francesco mentre papà Marino era ancora lontano. E, per giunta, il Marino non dava notizie di sé che ormai era parecchio.
Emma cercava di cavarsela come poteva,ingoiando sospiri e lacrime, e talora, correndo a destra e a manca come una trottola, per assolvere a tutti i suoi doveri.
Per lei era un punto d’onore.
In alcune ore, infatti, aiutava i suoceri nel lavoro dei campi e , per il resto del tempo, si occupava al meglio dei suoi due bambini. Quando poteva faceva anche una qualche scappata veloce dai suoi genitori, che ormai erano anziani e malandati per gli acciacchi dell’età e, se le riusciva, dava una mano anche lì.
Francesco, detto Chicco, era piuttosto vivace in culla e altrettanto continuò ad esserlo col trascorrere dei giorni, dei mesi e degli anni, specie poi non appena imparò a camminare.
Lui e Bepi non quietavano mai e s’inventavano di continuo i giochi i più disparati. E, sovente, quando non erano puntuali a tavola, a pranzo o a cena, prendevano scapaccioni senza risparmio da Emma, che amava i suoi figli ma li voleva assolutamente obbedienti alla prima.
Intanto la guerra stava quasi per volgere al termine. Almeno quelle erano le notizie che arrivavano in paese tramite Radio Londra, che il padrone dell’emporio, Rocco, comunicava ai suoi clienti quando questi al mattino si recavano a fare compere.
Emma, speranzosa, tra un lavoro e l’altro,s’augurava di poter sentire ,un giorno o l’altro, bussare alla porta e poter riabbracciare finalmente il suo uomo e quello che era il padre dei suoi figli.
E, mesi dopo, senza che se l’aspettasse affatto, fu proprio così fu.
Era mattina inoltrata e nel cortile antistante Francesco, cioè Chicco, giocava questa volta da solo con una vecchia ruota di bicicletta, che finì involontariamente tra le gambe di Marino.
E allora Emma, rivolta al suo uomo esclamò :<<Ecco tuo figlio!!>>.
Marino rimase un po’ interdetto, perché sorpreso. Poi si riprese e lo sollevò in alto per guardarlo bene in viso e negli occhi.
Gli occhi azzurri di Chicco, che avevano il colore del mare. Un mare che da quelle parti in pochissimi avevano mai visto.
Fu poi la volta di Bepi ma quello era un rincontrarsi sia pure dopo tanto tempo. Bepi era l’immagine sputata di Emma tanto nel fisico che nei modi di fare.
Arrivarono subito dopo i nonni, cioè i genitori di Marino, i fratelli, i nipoti e la famiglia patriarcale si riunì intorno alla tavola della grande casa.
Emma, la suocera e le cognate prepararono risi e piselli (risi e bisi) in grande fretta e portarono in tavola del vino buono assieme a un piccolo prosciutto, tenuto da parte assolutamente per le grandi occasioni, per consumare e brindare al ritorno del “guerriero”.
E poi anche per ascoltare i suoi racconti avventurosi.
Ma Marino era troppo stanco per raccontare. Accennò solo che aveva trascorso buona parte della sua prigionia, una volta catturato, in Sardegna. E disse loro che si trattava di una grande isola. Quasi un continente.
Terminato il pasto, dopo l’ultimo bicchiere, l’uomo si alzò e, mezzo barcollante per la fiacca, che gli piegava le ginocchia, chiese ad Emma di accompagnarlo nella loro stanza da letto e lei annuì.
Il giorno seguente Marino riprese, com’era giusto che fosse, ad orientarsi di nuovo in paese, nel suo paese, specie dopo la forzosa assenza, e si fermava fuori casa addirittura fino a tarda sera, per salutare amici e, soprattutto, parenti con i quali da sempre aveva avuto un buon rapporto di collaborazione.
Nel mondo contadino la solidarietà, si sa, è fondamentale. Tutti possono avere bisogno di tutti. E i tempi, per di più, quelli del dopoguerra, non erano affatto da scialo.
Tu dai una mano a me e io la do a te –questo gli aveva sempre ripetuto il suo vecchio.
Ma nei giorni successivi, finita la sbornia dei saluti, lui ed Emma ripresero a lavorare insieme nei campi di suo padre e, soprattutto, non la smettevano di fare progetti con l’intento di mettere quanto prima su casa per conto proprio.
E non erano fantasticherie, perché il papà di Marino aveva in mente davvero di dargli un bel pezzo di terreno nel suo podere, dove la nuova famiglia potesse pensare di costruirsi casa.
E così fu.
Dopo qualche giorno Marino e suo padre, infatti, andarono in città dal notaio per stipulare l’atto di donazione.
I sacrifici da fare certo si sarebbero moltiplicati in progressione geometrica ma, finché i bambini erano piccoli, si potevano fare.
Inoltre Emma era risparmiosa e aveva delle manine di fata per il cucito e per il lavoro a maglia.
Riusciva da vecchi abiti a ricavare ciò che dovevano indossare Bepi e Chicco.
E i suoi bambini non facevano mai brutte figure rispetto ai figli dei signori.
Bepi aveva iniziato, intanto, a frequentare la scuola. Era una pluriclasse con un solo maestro, che arrivava ogni mattina con il postale ma il bambino ci andava volentieri e, in particolare, tutto ciò che sapeva di attività manuali e pratiche lo affascinava.
Accanto a leggere e scrivere e a fare di conto si era appassionato all’apicoltura, seguendo gli insegnamenti del maestro, che ogni giorno raccontava ai bambini dello straordinario mondo delle api. E in famiglia, al rientro da scuola, diceva che, non appena la loro casa fosse stata terminata, lui si sarebbe costruito un alveare, dove avrebbe prodotto tanto miele da venderlo al mercato e fare tanti soldi.
Emma sorrideva compiaciuta ma non aveva mai tempo per fermarsi ad ascoltare, come avrebbe voluto, suo figlio.
In casa di sera doveva rigovernare in quanto al mattino era nei campi e in pomeriggio faceva da manovale a Marino e a qualche suo amico per tirare su quanto prima lo scheletro di quella che sarebbe stata la loro futura abitazione.
E, ancora, in certi giorni c’era anche da fare il pane in casa,o il bucato al fiume e, infine, stirare cumuli di panni col ferro a carbone, che le metteva a dura prova braccio e mano per il peso eccessivo dello strumento. Specie dopo una giornata non trascorsa di sicuro in panciolle.
Un bel giorno, però, Emma dovette fermarsi per forza di cose. Nausee e capogiri le palesarono che era in attesa di un terzo figlio.
Sulle prime non la prese bene, perché avrebbe preferito partorire in casa sua e far nascere lì il suo terzo bambino o bambina che fosse.
Poi, col passare del tempo,presa da mille pensieri, non ci pensò più e, superati i classici tre mesi, riprese a lavorare, nei campi e in casa, come prima ma con qualche riguardo in più per la sua persona. Così come le aveva raccomandato il dottore di città.
E, dopo altri sei mesi, nel lettone della nonna paterna nacque Lucianino. Il terzo maschietto della nidiada.
Salutato con gioia dai presenti, che brindarono tutti a prosecco augurando ogni bene a mamma e neonato, il lieto evento si consumò.
Poppate diurne e notturne, pannolini da lavare e gridolini da baritono, il nuovo bebé divenne presto il trastullo obbligato dei fratelli maggiori, che dovettero necessariamente collaborare con la madre.
E questo proprio perché si potesse entrare in casa nuova quanto prima. Infatti ci volevano braccia da lavoro per tirare su i muri ed Emma non si tirava certo indietro.
Ormai desiderava una casa tutta sua e avrebbe fatto qualunque sacrificio pure di raggiungere lo scopo.
Lucianino, come era stato per Chicco, poppava e cresceva bene. E la famiglia era nel complesso serena.
In autunno, compiuti i sei anni, anche Chicco prese a frequentare la scuola e si distinse subito per la grande voglia di apprendere, che manifestava.
Di sera, accanto al camino, leggeva e rileggeva i racconti brevi del suo sillabario ad alta voce.
E Bepi, che era intento a tutt’altro come, ad esempio, ad aggiustare un carretto da lui stesso costruito con delle vecchie tavole per giocare sulle discese del paese coi compagni di gioco, lo prendeva in giro, dandogli del secchione.
Lucianino, intanto, gattonava beato sul pavimento inseguendo il gatto della nonna e bisognava fare attenzione che non si avvicinasse troppo al fuoco.
La casa tanto agognata da Emma finalmente fu terminata e la famigliola andò presto ad abitarla, sistemandosi alla bene e meglio con arredi che i nonni di entrambe le famiglie, generosi come solo i genitori sanno essere, avevano provveduto a donare ai rispettivi figli.
In una casa grande, infatti, ci sono sempre suppellettili di troppo ed è una manna dal cielo qualche volta il poterle dare via.
Emma pensò, invece, a cucire le tende con delle pezze di lino del suo corredo e a piantare dei gerani di differenti colori in vaso da riporre sui davanzali di finestre e balconi. Marino nel mentre si era dato da fare, a suo modo, realizzando subito sul retro dell’abitazione un piccolo orto. Di più non si poteva ma la famiglia se lo sarebbe fatto bastare. E, soprattutto, ci sarebbero stati ortaggi di stagione senza essere costretti a ricorrere agli esosi venditori del mercato bisettimanale, che si teneva in paese il mercoledì e il sabato.
C’erano cambiali da pagare e prestiti da onorare, per cui bisognava essere molto attenti nel gestire le modeste entrate di Marino.
Questo era chiaro a tutti. Bambini compresi.
Emma, infatti, non lavorava ormai se non in casa. E s’occupava dell’orto, degli alberi da frutto, che aveva imparato a potare, quando era la stagione giusta, e naturalmente delle faccende di casa, che erano sempre tante. E non trascurava mai di dare una mano ai suoceri e ai suoi genitori.
I tre discoli, che amava tantissimo, le davano parecchio da fare e con loro bisognava non transigere per farsi obbedire.
Bepi, col passare del tempo manifestava sempre più senso pratico ed era evidente che da grande avrebbe potuto essere solo un bravo artigiano e lavorare in una di quelle piccole fabbriche ,che cominciavano a spuntare come funghi nel territorio circostante e che quasi sempre erano a gestione familiare. Mentre Chicco,al contrario, prometteva molto bene e per profitto a scuola e per parlantina spigliata e per curiosità intelligenti, che manifestava a ogni occasione.
Il parroco, che conosceva bene la famiglia e i bambini, lo aveva notato e lo aveva fatto presente a Marino e a Emma.Chicco –aveva detto- deve assolutamente continuare gli studi dopo le elementari. Il contrario sarebbe un delitto.
E il modo (aveva rassicurato i genitori) si sarebbe trovato comunque se l’inghippo era il fare fronte alla spesa. Era chiaro che Chicco, ad appena undici anni, sarebbe dovuto andare a risiedere fuori paese. Ma il seminario di una cittadina della regione confinante con la loro, con buone probabilità, avrebbe potuto accoglierlo.
I genitori parlarono al ragazzo e lui, con qualche piccola esitazione, si disse d’accordo. Certo doveva fare fronte alla nostalgia di casa, che non era roba da poco e alla mancanza dei compagni di gioco in paese ma la voglia di crescere e d’imparare era, per fortuna sua, più forte di lui.
Chicco amava molto la geografia e di sera, prima d’addormentarsi sul piccolo atlante scolastico, che aveva ricevuto per premio di profitto in regalo a Natale, tracciando rotte immaginarie con il dito sulle cartine, faceva spesso viaggi di fantasia.
Sognava d’ esplorare terre lontane, d’imbattersi in animali mai visti se non sulle pagine di zoologia del suo sussidiario.
E, allora, metteva insieme alle sue fantasie quelle poche nozioni apprese a scuola e, ad occhi chiusi, nel suo letto, diveniva protagonista di straordinarie avventure.
Ma la prima avventura vera per Chicco fu quando, una mattina d’ottobre con papà Marino e il parroco, salì sulla corriera alla volta della nuova scuola, dove era chiamato a sostenere un piccolo esame per poter essere ammesso e frequentare la prima ginnasio.
Emma lo salutò sulla soglia di casa e non ebbe il coraggio di accompagnarlo alla corriera. Era felice ma non riusciva a sopportare il distacco da quel figlio che per lei era speciale. E in cuor suo, cuore di mamma, gli augurava tutto il bene e il meglio possibile e immaginabile.
Il tempo vola. Chicco fu ammesso, come era suo desiderio, alla prima ginnasio e i mesi dell’anno scolastico, impegno dopo impegno, trascorsero molto più in fretta di quanto lui stesso potesse immaginare.
I risultati finali poi erano stati eccellenti e i genitori non potevano che essere contenti e orgogliosi del profitto del figlio.
Rientrato in paese per le vacanze, Chicco se la godeva alla grande con Bepi e con Luciano e con gli altri compagni di gioco che, rimasti in paese, erano andati di necessità quasi tutti a bottega a imparare un mestiere.
Scorrazzavano assieme da mattina a sera per la campagna allegramente sino a raggiungere i filari delle vigne, inventandosi imprese al limite del reale, alle quali facevano finta di credere e, qualche volta, scendevano fino al fiume per bagnarsi e rendere sopportabile la calura estiva.
L’estate-pensava Chicco- era proprio una pacchia. Niente compiti, niente letture obbligate, niente di niente. Solo giochi e la possibilità di dare ali alla propria fantasia.
Lucianino aveva frequentato intanto già la seconda elementare e così, di sera, i due fratelli, che dormivano nella stessa camera, trascorrevano il tempo prima di addormentarsi a leggere i giornalini, che il parroco generosamente aveva dato loro in prestito. Fumetti e racconti brevi,che quasi sempre narravano di mondi lontani, di avventure, dove il bene aveva assolutissimamente la meglio sul male.
Sì, perché tutti e tre , i figli di Emma e Marino, frequentavano assiduamente la parrocchia.
Chicco addirittura, su iniziativa del parroco, guidava un gruppo di bambini nelle attività formative e Luciano era con lui e decisamente molto molto attento a ogni parola del fratello.
Bepi, invece, aveva amici più grandetti. E, pur frequentando la parrocchia, cominciava ad avere interessi molto differenti da quelli dei suoi fratelli come quelli, ad esempio, di corteggiare le sue coetanee.
E pare proprio che ne avesse adocchiata una, di nome Vittoria,vicina di casa, che incontrava ogni mattina alla stessa ora quando usciva presto per andare a bottega da un maestro-calzolaio.
Luciano , pur essendo il minore, era molto creativo tanto nei giochi quanto nei discorsi, che fossero frutto di fantasie arzigogolate o argomenti seri. Ed è probabile che guardasse a Chicco come modello.
Possiamo dire, anzi, che era certo.
Tutti e tre, comunque, aiutavano a turno Marino nell’orto o lo seguivano pure sul lavoro se il papà lo chiedeva. E non se lo facevano ripetere due volte anche perché Marino esigeva assoluto rispetto dai figli ed era parecchio severo.
Emma guardava compiaciuta e grata al Signore questa sua famigliola unita. E non mancava mai di ricordare ai ragazzi, prendendoli spesso separatamente in disparte, che era bene andare a scuola con profitto ma quello che Gesù guardava sopratutto era il cuore. Perciò- diceva loro - dovete essere buoni.
Abbiamo detto che il tempo vola e, infatti, mesi e anni trascorsero con enorme rapidità.
Ed Emma e Marino, con qualche ruga di troppo e qualche capello grigio in più, finirono in meno che si dicesse a ritrovarsi circondati da tre giovanotti.
In casa adesso c’era qualche soldino per fare compere ed erano finiti i tempi di magra. E c’era pure la salute, cosa non trascurabile.
Bepi aveva imparato il mestiere e lavorava in città, dove andava ogni mattina con la corriera e tornava a casa in serata. E, in cuor suo, stava già pensando di chiedere la mano di Vittoria, che aveva preso a frequentare non proprio ufficialmente, dal momento che la sua paga settimanale era discreta ed in fabbrica era anche piuttosto stimato perché serio sul lavoro.
Chicco era al liceo. E presto avrebbe frequentato in una città universitaria i corsi di filosofia e teologia e poi avrebbe deciso, al termine, il da farsi.
Cominciava a maturare in lui l’idea d’essere un missionario proprio come un missionario delle sue parti,che aveva avuto modo di conoscere durante un rientro e che gli aveva raccontato della sua esperienza di vita missionaria in Africa.
Luciano, a sua volta, era andato in collegio anche lui ma in un’altra cittadina. Non quella dove era stato ed era ancora Chicco.
E aveva scelto un contesto francescano di nome e di fatto.
Emma diceva che era merito o demerito suo perché, fin da piccolissimo, gli aveva raccontato quasi ogni giorno la vita di frate Francesco e i suoi miracoli.
Ma poi sorrideva e pensava ad altro. In casa, infatti, il da fare non mancava mai anche se due dei suoi ragazzi purtroppo erano lontani e doveva attendere l’estate per rivederli.
E arrivò, dopo alcuni anni, anche il momento delle grandi decisioni. Quelle decisioni che valgono per un’intera esistenza.
Chicco, terminati il biennio filosofico e gli studi teologici, risiedendo ogni volta in una differente città,dopo un corso di lingua inglese frequentato per un intero anno all’estero, palesò finalmente ai genitori l’intenzione maturata di consacrarsi alla vita di missione. Voleva essere un missionario. E lo avrebbe fatto con la congregazione,con la quale aveva compiuto, negli anni passati, gli studi superiori.
Era una spiritualità di quello che già considerava il suo istituto, che lo aveva in effetti affascinato da subito. Era giusto perciò -si diceva- continuare sulla medesima strada e seguire l’esempio del fondatore. Un uomo mite e buono, ricco di fede ma pure pronto a imprese impossibili all’apparenza. Un uomo delle sfide, diremmo noi oggi.
Emma e Marino alla notizia non si stupirono più di tanto in quanto, specie Emma, con l’intuito di madre, aveva capito da tempo che quello quasi certamente sarebbe stato il futuro di suo figlio.
Chicco, infatti, in alcuni discorsi fatti alla madre, specie durante le vacanze estive, non aveva mai fatto mistero del fascino che quella scelta esercitava su di lui. Marino, invece, rimase un po’ sorpreso e perplesso ma poi pensò tra sé e sé che, se Chicco voleva quello, era assolutamente giusto assecondarlo.
Quindi ripartenza per Chicco con l’impegno di frequentare almeno per il momento, per la durata di un anno, il noviziato.
Ed era la seconda volta per lui, perché già c’era stato un anno d’interruzione durante gli studi universitari.
Non bastava il fatto compiuto ,dinanzi al quale erano stati messi da Chicco tanto Emma che Marino che, esattamente dopo quattro anni e dopo una periodo di convalescenza da una brutta bronco-polmonite, anche Luciano annuncia ai genitori la sua volontà di seguire le orme del fraticello di Assisi, il “giullare” di Dio.
Questa volta, però, la mamma rimase un po’ triste all’annuncio, perché Lucianino, il suo piccolo, lei lo avrebbe voluto accanto e non lontano.
Poi, come sempre, affidò il suo cuore al Consolatore e si ripeté :”Sia fatta la volontà di Dio”.
Emma, infatti, aveva capito che c’è un progetto di Dio su ognuno di noi ed è sciocco ribellarsi. E poi, una volta, il parroco le aveva fatto notare che i figli, una volta nati, non sono più nostri. E lei ne dovette convenire.
Così anche Luciano partì per la grande città, la città cosiddetta dalle loro parti dei “grandi dottori”, neanche troppo distante dal paese, e intraprese lì con gioia il suo cammino di formazione e di spiritualità francescana.
E di certo, di lì a qualche anno, come realmente accadde, avrebbe preso i voti e sarebbe divenuto frate anch’egli.
Bepi intanto,il figlio maggiore, aveva messo su famiglia con la sua Vittoria.
Erano a casa di Emma e di Marino, perché di spazio ora nell’abitazione ce n’era abbastanza per ospitare la nuova famiglia.
Vittoria dal canto suo, affettuosa e servizievole, si era subito fatta amare dai suoceri, ai quali dava collaborazione con generosità tanto in casa che nell’orto. E per Emma lei era proprio la figlia che non aveva avuto.
Ma, manco a dirlo, a poco a poco di femmine ben presto la grande casa di Marino e di Emma si riempì.
Vittoria mise al mondo, a poca distanza l’una dall’altra, due bambine, che presero il nome rispettivamente di Marta e di Anna.
Erano due bimbe graziosissime e costituivano la gioia di nonna Emma, che finalmente poteva cucire loro abitini e d’inverno sferruzzare golfini, guantini e copertine.
E venne il tempo dell’ordinazione sacerdotale e di Chicco e di Luciano ma in due differenti città e in tempi diversi.
Emma e Marino, Bepi e Vittoria con le bambine e i cugini , gli zii e gli amici del paese, tutti parteciparono a entrambe le cerimonie e festeggiarono con affetto i due fratelli, che di lì a poco sarebbero partiti e non avrebbero presto fatto ritorno.
Chicco sapeva già che sarebbe partito per l’Africa. Destinazione Tanzania. Ma non sapeva esattamente la località dove avrebbe svolto il suo mandato. Lo avrebbe saputo soltanto una volta laggiù.
Per Luciano ad attenderlo invece c’era il Brasile, dove, senza che potesse lontanamente immaginarlo, avrebbe poi trascorso buona parte della sua vita di frate francescano in difesa dei diritti dei senza terra.
Quando i due si separarono da genitori e familiari furono momenti di difficile commozione. E questo perché le difficoltà del quotidiano, la consapevolezza dei sacrifici per mandare avanti la famiglia amorevolmente unita, la disponibilità costante dell’uno per l’altro nel momento del bisogno, avevano accresciuto notevolmente l’amore reciproco tra i componenti il nucleo. E in particolare nei confronti dei genitori.
Chicco partì da Torino, sede del suo Istituto missionario, per Roma e da Roma, con un volo di mattina presto, s’imbarcò alla volta di Dar es Salaam in Tanzania. Non era stato un volo comodo. C’erano stati parecchi scali, molte ore di sonno perse, anche perché il biglietto era di quelli economici.
Giunto in Procura nella città di Dar es Salaam , si sistemò alla bene e meglio per riprendere le forze (anche il cambiamento del clima aveva fatto la sua parte nel farlo sentire esausto) e a sera tardi, quando si risvegliò dopo un lungo sonno, ebbe la comunicazione di dove si sarebbe dovuto recare l’indomani.
E arrivò anche il mattino seguente con una luce solare abbagliante quanto indescrivibile per chi era abituato da sempre al sole tiepido del nord d’Italia.
Uno strano e malconcio piccolo bus nel mentre lo attendeva al cancello per raggiungere Madibira.
Un nome difficile Madibira.
Quasi impossibile da individuare persino sulla carta geografica dell’atlante, cui era particolarmente affezionato (ricordo di anni lontani) e che naturalmente aveva portato con sé.
Chicco mentre viaggiava e guardava fuori dal finestrino la strada polverosa, cercando di ignorare le buche che gli procuravano continui soprassalti, fantasticava su ciò che lo avrebbe atteso all’arrivo.
Ma, per quanti sforzi facesse, non riusciva affatto a concretizzare con realismo. Allora fece come da bambino e cominciò a fantasticare su paesaggi esotici, animali di quelli che al suo paese aveva visto solo quando c’era qualche circo di passaggio o che aveva incontrato sui libri di zoologia al liceo.
Dopo alcune ore, zuppo di sudore, maleodorante per avere convissuto con capre e galline nell’abitacolo del bus, giunse a destinazione e subito riconobbe un confratello anziano, capelli e pizzetto bianchi, che si sbracciava per farsi riconoscere tra una folla rumorosa color ebano.
Ci siamo- pensò tra sé e sé Chicco. Questa è la mia nuova residenza. Qui mi farò le ossa da missionario. Grazie, Signore.
E, intanto, i due unici bianchi, dopo gli abbracci, con una bici a due posti raggiunsero la casa della missione, che distava pochi minuti dalla fermata del bus.
Era una costruzione semplice in mattoni, che includeva una piccola cappella, ed era circondata da un giardinetto recintato. Sul retro troneggiava un ‘eoliana e un pozzo,che era quasi certamente stato costruito da poco. Dalla cucina si affacciò una donnina magra e sorridente, che probabilmente faceva da cuoca e da donna delle pulizie. L’altro confratello, il terzo della compagnia, era al momento fuori casa per raggiungere un villaggio rurale, dove si recava periodicamente per portare l’eucaristia agli ammalati.
A casa, in paese, Emma e Marino trascorrevano le giornate continuando a lavorare come muli, intrattenendo le nipotine con lunghi e fantasiosi racconti, di sera, accanto al camino negli inverni rigidi e, sull’aia, d’estate, per prendere il fresco Rimanevano comunque in attesa di notizie e da Chicco e da Luciano.
Le lettere, però, impiegavano una ventina di giorni per giungere a destinazione tanto in una direzione che nell’altra.
Ma il loro arrivo era ogni volta un’autentica festa, cui partecipava tutta la parentela .Ed Emma, emozionata, leggeva e rileggeva quei pezzi di carta dei suoi ragazzi fino a sgualcirli completamente e renderli quasi illeggibili.
Era un po’ inconsciamente il suo modo di abbracciarli,di stringerli forte a sé..
Erano quasi sempre parole di rassicurazione, che facevano molto bene al cuore di Emma. E accanto a quelle tanto Chicco che Luciano univano un po’ del loro quotidiano così che la mamma, che sapevano curiosa, perché donna intelligente, potesse immaginare i contesti.
Desiderio di conoscere ciò che era al di là del paese e della valle ad Emma non era mai mancato. Neppure nei momenti grigi dell’ esistenza quando le difficoltà sopravanzavano le gioie.
Conservava, infatti, delle vecchie cartoline che la madrina le aveva inviato quasi ogni mese quando, sposandosi, si era trasferita per sempre a Roma.
Le tirava fuori dalla scatola di metallo dove le aveva riposte e immaginava di passeggiare per quelle vie e quelle piazze a lei sconosciute e di ammirare palazzi e monumenti, che osservava con particolare attenzione. Ed era un po’ come se ci fosse davvero lì.
Chicco nelle sue di lettere raccontava parecchio delle visite nei villaggi, dove la povertà era qualcosa che rasentava la miseria, e ancora dei momenti gratificanti di catechesi con adulti, donne e bambini, che si preparavano gradatamente a ricevere i sacramenti e, in particolare, poi delle visite agli ammalati.
E una volta raccontò pure del drammatico salvataggio di una donna gravida che stava per partorire e che, pur riuscendo a portarla tempestivamente al più vicino presidio medico di zona, perse comunque il suo bambino.
Luciano , invece, parlava animatamente del suo impegno politico-sociale con i laici coinvolti nella pastorale della terra, perché angariati da sempre dai latifondisti e dalle grandi industrie straniere, che vedevano nel Brasile il paese della cuccagna per i loro redditizi affari. E poi narrava anche della cordialità della gente, serena anche quando le cose non andavano per il verso giusto e mancava e pane e acqua.
Della mancanza di acqua e dell’aridità insopportabile delle giornate non c’era lettera che non ne parlasse.
E il cuore di Emma, allora, si faceva piccolo piccolo e pregava di Dio che desse tutta la forza necessaria al suo ragazzo per poter aiutare quella gente in così grandi difficoltà.
Marino e Bepi, gli uomini di casa, si mostravano all’apparenza più forti delle donne e di Emma e poco inclini alla commozione ma in realtà non potevano anche loro non avvertire il peso della lontananza. Per l’uno dei figli, per l’altro dei fratelli.
Com’è naturale che sia, gli anni della lontananza di Chicco e di Luciano si susseguivano uno dietro l’altro senza interruzione e l’unico legame con i genitori , con i parenti e con il paese, erano ormai le sole lettere dal Tanzania e dal Brasile.
Qualche volta insieme al classico foglietto della posta aerea c’erano pure delle istantanee in bianco e nero, che completavano i racconti grazie alle immagini sempre molto realistiche.
Così di sera venivano zii e cugini, conoscenti e amici, a casa di Emma e di Marino, e si chiacchierava a lungo di quei luoghi che nessuno di loro avrebbe mai visitato e ci si rammaricava con sincera partecipazione di tanta assurda sofferenza in giro per il mondo.
E questo perché in un contesto contadino, e adesso appena pre-industriale, si sa bene che la fortuna è discontinua. Su di essa non si può contare all’infinito. E non ci si sarebbe meravigliato poi tanto se le cose all’improvviso avessero preso a peggiorare e a girare male anche a casa propria.
I giorni seguenti infatti, per solidarietà, si organizzava subito una raccolta di piccole somme di denaro per aiutare quella povera gente. E ci pensava il parroco, ormai anziano, a provvedere alla spedizione delle somme tanto a Chicco che a Luciano.
E qualche mese dopo, quando nelle lettere di ritorno arrivavano i consueti ringraziamenti e si raccontava anche di come il denaro era stato impiegato, la lettura era pubblica e veniva fatta in chiesa, e sempre dal parroco, al termine della messa domenicale.
Emma, comunque, in cuor suo non aspettava altro che il termine almeno momentaneo delle permanenze all’estero dei suoi figli, perché sapeva che era loro consentito un periodo di vacanza dopo un certo numero di anni lontani dall’Italia.
E contava i giorni per non dire le ore sul calendario di Frate Indovino.
Calendario,oggetto davvero prezioso per la famiglia tutta, che faceva bella mostra di sé accanto al camino, posto piuttosto in alto, perché non si affumicasse e che dispensava suggerimenti e consigli sul tempo bello o brutto e sui periodi opportuni per poter fare certi lavori nei campi.
Intanto gli anni e le fatiche quotidiane alla nostra Emma cominciavano inspiegabilmente a pesare un tantino di più anche se la nuora l’aiutava volentieri quando c’era del bisogno.
E anche le bambine, a dire il vero, crescevano servizievoli nei confronti della nonna.
Poiché quella sensazione di affaticamento non cessava e, spesso, la donna doveva interrompere le faccende di casa forzosamente e sedersi , Marino decise di portarla in città dal loro dottore per una visita medica di controllo.
Il dottore questa volta, piuttosto preoccupato, consigliò un’ulteriore visita presso un cardiologo, di cui diede l’indirizzo, e così fu fatto nella medesima giornata.
L’elettrocardiogramma purtroppo rivelò un lieve scompenso cardiaco, che però, nel tempo, sarebbe potuto peggiorare se Emma non avesse avuto riguardi per la sua persona.
Questo le fu detto e per lei fu un’autentica botta forte data inaspettatamente sul capo.
E lei la recepì quasi come una sentenza inappellabile. Difficile da accettare a cuor leggero dal momento che era stata sempre molto attiva.
I giorni successivi la videro un po’ immalinconita e ancora più ansiosa di prima di rivedere i suoi figli.
Chicco e Luciano erano stati avvertiti per lettera dal parroco e ormai erano prossimi ad arrivare in Italia.
Ma, una mattina, Emma ebbe come un mancamento totale di forze e fece appena a tempo a raggiungere una sedia per mettersi seduta e riuscire a chiamare sua nuora con un filo di voce.
Vittoria, che non era molto distante, nella stessa casa, accorse, la prese sotto braccio e l’accompagnò a letto, dove Emma, prese alcune gocce che le erano state prescritte, e rimase per tutto il giorno fino al rientro di Marino e di suo figlio Bepi.
Si decise tutti d’accordo di far venire il cardiologo a casa per un nuovo elettrocardiogramma e l’indomani Marino con Bepi andarono in città a prenotare la visita e a rendersi disponibili ad accompagnare lo specialista in paese .Sempre che questi avesse accettato di fare il viaggio.
E il dottore venne a visitare Emma e le ordinò riposo assoluto accanto alla prescrizione di nuovi costosi farmaci.
Certo le cure di allora non erano quelle di oggi e per l’ammalato occorreva davvero molta prudenza, se non voleva tirare le cuoia anzitempo.
Eppure Emma non accettava affatto di considerarsi un’inferma.
E, quando i suoi uomini erano fuori casa, faceva tutto quello che poteva, in fretta, per rassettare e tenere in ordine l’abitazione. Quello che non faceva più era occuparsi dell’orto. A quello provvedeva ormai sistematicamente Vittoria e lo faceva molto volentieri senza che nessuno glielo avesse detto.
Un bel giorno arrivò al parroco in paese la notizia che Chicco e Luciano stavano per arrivare. Così fu lui, il parroco, a premurarsi di andarli a ricevere in stazione, sapendo di fare cosa gradita soprattutto ad Emma, che con lui si confidava senza inibizioni.
E si ritrovarono di nuovo, in meno che si dicesse, tutti assieme, anche il parroco, nella grande casa di Marino ed Emma.
Emma si alzò dal letto per l’occasione, indossò un abito nuovo di seta turchese,che le avevano regalato Bepi e Vittoria per il suo compleanno, e organizzò un pranzo coi fiocchi. Naturalmente senza badare a spese.
I suoi ragazzi andavano festeggiati alla grande. Proprio come meritavano. Vittoria e persino le nipotine fecero la loro parte per aiutare la nonna ai fornelli. E, soprattutto, si diedero un grande da fare nell’imbandire una bella tavola con la tovaglia di lino bianca ricamata e il servizio buono di porcellana e i bicchieri di cristallo a calice.
Erano regali di nozze di Vittoria, che lei però utilizzò con grande piacere per l’occasione.
In tavola fu tutto un raccontare. Iniziava Chicco a narrare del caprone di Madibira morto nella notte e che lo aveva costretto ad una levataccia terribile e incalzava, subito dopo, Luciano che parlava delle marce interminabili dei suoi campesinos per vedere riconosciuti il diritto alla terra e all’acqua, che in Brasile è un autentico inestimabile tesoro, specie lì dove manca, perché i latifondisti deviano il corso dei fiumi con prepotenza per scacciare i poveri e renderli ulteriormente più poveri.
Il parroco assentiva con sussieguo. Le bambine, con gli occhioni spalancati e bocca aperta, ascoltavano in religioso silenzio unitamente ai loro genitori. Mentre Emma e Marino erano solo visibilmente orgogliosi dei propri figli.
Le ore intanto passavano e, quando il parroco si alzò per accomiatarsi,com’è abitudine dei preti dopo il pranzo, anche Chicco e Luciano chiesero il permesso di ritirarsi nella loro camera. La stessa che condividevano da bambini e dove avevano cominciato a immaginare il loro futuro in terre lontane dal contesto paesano.
E lì si addormentarono profondamente e dormirono fino a tarda sera. Quando a svegliarli ci pensò l’arrivo dei parenti e degli amici, era già stata allestita all’esterno della casa, sull’aia, da Emma e Vittoria una grande tavola con rustici e dolci di ogni qualità e buon vino.
Il tutto per trascorre le ore della serata in allegra compagnia e continuare i racconti. Del resto era estate e il clima lo consentiva. Unico inconveniente : le zanzare e altri insetti molesti. Ma per una sera e un’occasione speciale come quella si poteva non farci caso.
L’indomani mattina fu però tutta un’altra musica. Levataccia e messa alle sette in punto in parrocchia, alla quale Emma e Marino non mancarono e, con loro, buona parte dei paesani.
Fu una concelebrazione a tre, compreso il parroco, visibilmente emozionato, ma l’omelia la fece Chicco, ormai padre Francesco, e nel finale fratello Luciano intrattenne i compaesani con piccoli racconti e qualche canzone del Brasile, opera di un suo amico carissimo, Roberto, che era un instancabile compositore e un bravo musicista e che cominciava a farsi conoscere anche laggiù.
Le vacanze estive di Chicco e Luciano finirono in fretta ed Emma dovette prepararsi al nuovo distacco dai suoi figli.
Gli ultimi giorni avresti potuto scorgere negli occhi di lei molto spesso un velo di tristezza ma poi, dopo qualche istante di malinconia, abbozzava repentino un sorriso per non farne accorgere i ragazzi.
E in cuor suo pregava silenziosamente la Vergine Consolata di proteggere i “suoi” bambini. Per lei erano sempre e solo i suoi bambini nonostante i calzoni corti li avessero dismessi da un pezzo e non giocavano più a imprese impossibili in aperta campagna fino a tarda sera.
Una mattina, inaspettatamente, il postino recò una raccomandata indirizzata a Chicco.
Il messaggio succinto, che lui si premurò di rendere subito noto a sua madre, era che non sarebbe ripartito per l’Africa. Che sarebbe stato impiegato, invece dai suoi superiori in Italia, nell’Istituto, a Torino.
Emma, appresa la comunicazione, era al settimo cielo dalla gioia, pensando che almeno un paio di volte all’anno avrebbe quasi sicuramente rivisto suo figlio.
Diciamo che si sentì un po’ più forte. Probabilmente avvertiva come un inconsapevole senso di protezione, pur essendo lui il figlio e lei la madre.
Luciano, invece, alla data stabilita dovette partire.
Lo accompagnarono tutti a Milano e, da lì , egli avrebbe volato a Rio de Janeiro. E poi ,con un successivo volo interno, sarebbe giunto a Salvador de Bahia.
Anche Emma, nella circostanza, ebbe la fortunosa opportunità di visitare la città meneghina. Infatti Chicco, dopo l’imbarco di Luciano, portò i genitori nel centro città a visitare il Duomo, il Teatro alla Scala e la zona dei navigli. In seguito, anche con Bepi,Vittoria e le bambine, pranzarono in una caratteristica trattoria della vecchia Milano.
Emma, distratta da tante novità, avvertiva in parte un po’ mitigato il dolore del distacco da Luciano. Ma, nel tardo pomeriggio, in treno, sulla via del ritorno,era lì, silenziosa, che seguiva con il pensiero il “suo” ragazzo in volo per una terra lontana e a lei sconosciuta.
Circa una settimana, dopo la partenza di Luciano, partì anche Chicco. Ma la cosa era differente. Bepi aveva messo in casa il telefono fisso e in questo modo, almeno di domenica pomeriggio, Chicco poteva telefonare a casa.
Con l’arrivo dell’autunno, però, la salute malferma di Emma creò nuove preoccupazioni in famiglia.
La donna rimaneva spesso a letto e lamentava di frequente la mancanza di forze.
Intanto Chicco,in Istituto, nel nuovo incarico era impegnato parecchie ore al giorno in redazione a collaborare con l’attuale direttore del loro mensile.
Una rivista importante il periodico, che aveva tutta una sua storia interessante e, per di più, quasi un secolo di vita. Una rivista che aveva voluto tenacemente addirittura il fondatore del loro Istituto fin dagli inizi. E che raggiungeva tutte le missioni dell’Istituto in quei continenti in cui i missionari e le missionarie erano presenti.
Il nostro Chicco, padre Francesco a Torino,era in verità abile nella scrittura e aveva quello che si dice il talento autentico del reporter. Infatti il direttore lo utilizzava spesso nelle interviste fuori casa, che Chicco corredava sempre di bellissime immagini fotografiche.
E questo perché possedeva un senso estetico fuori dal comune che ad altri purtroppo difettava e poi, a dirla tutta e vera, era anche un grande appassionato di Storia dell’arte.
Naturalmente certe volte era impiegato anche in mansioni molto più modeste come la correzione delle bozze e, spesso, pure nella ricerca di foto in archivio per ore e ore. Per la rivista difatti, potendo, si utilizzava quasi sempre materiale proprio e questo allo scopo di risparmiare sui costi. Così Chicco non solo era abile nel cercare e trovare, tra le migliaia di foto presenti in archivio, alcune anche storiche di grande pregio, quelle necessarie allo scopo del momento. Ma andava, nei momenti liberi, in giro a scattare foto in città e nei dintorni ,con una Leica che gli avevano regalato i parenti e gli amici, in paese, al rientro dal Tanzania. E lo faceva per non essere mai a corto di immagini,che sarebbero potute tornare utili all’occasione.
Il fotogiornalismo, diciamo, che lo aveva nel sangue. E il direttore, anche se non glielo dava a vedere, lo apprezzava molto.
A casa, Emma e Marino, Bepi e sua cognata, e soprattutto l’anziano parroco, attendevano ogni mese con ansia l’arrivo della rivista. Ed erano poi al settimo cielo se c’era, tra i tanti, un articolo firmato dal nostro. Se ne parlava con orgoglio e senza falsa modestia per giorni e giorni.
Mentre Chicco faceva la sua esperienza nella redazione dell’Istituto a Torino e di lì a qualche anno sarebbe divenuto poi lui il direttore della rivista (come fu e per parecchi anni), Emma , al paese, peggiorava giorno dopo giorno in quelle che erano le sue condizioni fisiche.
Pertanto fu necessaria la di lui presenza per assistere mamma Emma, che non si alzava ormai quasi più dal letto e dare in questo modo un aiuto a papà Marino.
I suoi superiori non obbiettarono e furono molto comprensivi con lui.
I medici, tanto quello curante che il cardiologo, non sapevano spiegarsi il perché di un tale precipitare dello stato di salute della donna e alle domande insistenti dei familiari non c’era mai una risposta che fosse sul serio esauriente.
I giorni passavano, arrivava quasi ogni settimana una telefonata dal Brasile di Luciano, che domandava notizie di sua madre, ma in casa c’era molto scoraggiamento e lo si percepiva.
Vittoria accudiva come poteva e come sapeva. E faceva in modo che non si sentisse troppo l’assenza di Emma nel disbrigo delle faccende e in tutto il resto e che gli uomini di famiglia avessero tutto quello che necessitava loro per non fare brutte figure.
Camicie stirate e altrettanto i calzoni con tanto di piega precisissima. E merende più che abbondanti per placare la fame dei maschietti di casa nelle pause sul posto di lavoro.
Marta e Anna invece, quando erano libere dalla scuola, facevano compagnia alla nonna e le raccontavano quanto accadeva fuori.
Erano, infatti, sempre molto informate. E la nonna gradiva molto questi resoconti paesani. Diciamo che la distraevano e la distoglievano da cattivi pensieri.
Emma e Chicco nelle ore che trascorrevano assieme, specie nella mattinata, pregavano molto. Emma, infatti, non voleva arrendersi al suo male. Avrebbe voluto continuare a seguire nella quotidianità il suo uomo e i suoi ragazzi per ancora un po’ d’anni e con la stessa energia di un tempo.
Poi, però, quando si accorgeva di sentirsi debole, doveva arrendersi all’evidenza e affidarsi alla Provvidenza.
E così, recuperando la propria serenità di donna pia, nonché di madre e di moglie responsabile, si affidava al Padre di tutti perché fosse misericordioso con lei e con i suoi familiari.
E non le pareva di chiedere troppo.
Perché, nei suoi dialoghi muti col Padre, fiduciosa, aveva ogni volta avvertito d’essere amata, accolta e accontentata.
Come quando, ad esempio, Gli aveva affidato l’avvenire dei suoi figli adolescenti,Francesco e Luciano. E la risposta c’era stata.
Stessa cosa quando aveva pregato perché Bepi avesse una bella famiglia con la sua Vittoria. E che fosse sempre un buon marito, un buon padre e un lavoratore onesto.
E il lavoro era arrivato, il matrimonio c’era stato e, dopo qualche tempo, erano nate anche Marta e Anna, le piccole grandi gioie della coppia. Luce degli occhi per i nonni.
Con novembre, intanto, sopraggiunse, manco a farlo a posta, un freddo davvero fuori del comune per quei luoghi. Pioveva troppo spesso e grandinava all’improvviso. Il vento soffiava con raffiche impietose. E l’umido gelava le ossa specie se non ci si avvicinava per scaldarsi, di tanto in tanto, al fuoco del camino.
La natura tutt’intorno, con i suoi alberi spogli, non faceva certo mistero del letargo cui tutte le creature stavano di lì a poco per andare incontro.
E anche per Emma, senza che nessuno lo sospettasse, si avvicinava, quatto quatto, il momento del saluto ultimo ai suoi cari.
Una mattina,come sempre era solito fare,Chicco entrò nella camera da letto dei genitori e, lanciando lo sguardo al letto matrimoniale, vide che Emma dormiva ancora.
Più di quanto non fosse solita farlo. O almeno così lui pensò tra sé e sé.
Si avvicinò, allora, per darle un bacio sulla fronte ma avvertì il gelo della sua pelle prima e poi della sua persona tutta nell’atto di sollevare lenzuolo e coperta.
Capì. E, con le lacrime trattenute, andò fuori a chiamare gli altri. Era la festa di Ognissanti e in casa per fortuna c’erano tutti.
Entrarono Marino e Bepi per primi e si fermarono a lungo per farle una carezza sulle guance e prenderle la mano, che ricadde inevitabilmente inerte.
Pareva che dormisse tanto l’espressione del viso era serena.
Fu avvertito telefonicamente Luciano, che avrebbe dovuto organizzarsi per il lungo viaggio.
E fu chiamato il vecchio parroco, che accorse immediatamente.
Fu data a Emma quella che oggi si chiama unzione degli infermi e furono recitate dal parroco e da Chicco delle preghiere particolari per i defunti come buon viatico per quanto l’anima di lei fosse giunta al cospetto del Padre di tutti.
La casa piombò in un silenzio ovattato e riverente. Chi veniva per fare le condoglianze, parenti o amici, lo faceva con grandissima discrezione.
La notte ci fu la recita del rosario e la veglia cui parteciparono in tanti.
Bisognò attendere, però, due giorni per l’arrivo di Luciano e per poter fare i funerali.
La salma fu portata nel mentre al cimitero del paese, dove era più facile tenerla senza grossi inconvenienti.
Marino era distrutto dal dolore ma non lo dava a vedere. Più che altro si sentiva perduto senza Emma. Un po’ come un cane rimasto senza padrone. Provava in effetti lo sconforto dell’abbandono. E lo aveva percepito terribilmente nel momento in cui il corpo senza vita di Emma era uscito definitivamente dalla porta di casa.
Terminata la cerimonia funebre e dato luogo al rito della sepoltura, in terra, proprio come Emma aveva sempre detto di volere, ciascuno dei familiari riprese a vivere la propria quotidianità.
Luciano partì l’indomani perché laggiù, in Brasile, c’era una situazione difficile da risolvere e politicamente i tempi non erano affatto buoni.
Bepi ritornò anch’egli il giorno successivo al lavoro in fabbrica e Vittoria e le bambine, sgomberati l’armadio di Emma da abiti e biancheria da dare ai poveri della parrocchia (ma era poca roba) ripresero anch’esse la loro vita abituale. Ogni tanto erano le bambine, quelle che facevano esplicitamente riferimento alla nonna, ma venivano messe a tacere e si cambiava subito discorso. Questo non ferire ulteriormente Marino, che appariva ogni giorno più taciturno.
Chicco rimase in paese e in casa qualche giorno di più proprio per tenere compagnia a suo padre. Tutti e due, di mattina facevano lunghe passeggiate nei campi .Poi,al rientro in paese, dopo una tappa al cimitero per salutare Emma, entravano per una mezz’oretta in chiesa.
E, all’ora di pranzo, puntuali erano di rientro a casa.
Quando Chicco salutò padre , fratello, cognata e nipotine, per rientrare a Torino in Istituto, il distacco non fu facile per nessuno.
Senza che altri se ne accorgessero, Vittoria, pochi minuti prima dell’ultimo commiato, passò di nascosto a Chicco una foto di Emma. Una bella foto, quasi certamente unica, un po’ sbiadita dal tempo ma non troppo, che raffigurava Emma quando era solo una giovinetta. Presumibilmente poco prima di fidanzarsi e di sposare Marino.
Chicco ringraziò. E , una volta a Torino, quella foto, in una modesta cornice,acquistata una mattina al mercato cittadino, rimase a lungo sulla sua scrivania nel suo ufficio.
Fino a quando almeno Chicco, ormai padre Francesco, non ripartì, come accadde, dopo molti anni, nuovamente per l’Africa.
E madre e figlio in questo modo continuarono in un dialogo che comunque, vicini o lontani, non avevano mai interrotto.
E lì, su quella scrivania, anche chi scrive si è imbattuta per la prima volta, una sera d’autunno di tanti anni fa, in Emma.
E se n’è innamorata a tal punto, attraverso i racconti che di lei le sono stati fatti, da volerne raccontare la storia.
La storia, io dico, di una madre fortunata. Perché la madre di un missionario è una madre fortunata. Una madre, la nostra Emma, le cui preghiere sono state accolte e che ha lasciato nel mondo, dopo di lei, non uno ma addirittura due figli missionari, che lavorano ,assieme a tanti altri come loro, perché giustizia e pace siano lì dove, i poveri sono tanti. Troppi. E innumerevoli i soprusi nei loro confronti dettati dall’avidità e dal desiderio irrefrenabile di potere, che uomini malvagi purtroppo coltivano.
E Chicco e Luciano, memori delle parole di mamma Emma, che li voleva “buoni”, lo fanno convinti che, anche se la vita non è quasi mai una favola a lieto fine, la fede è sul serio rigeneratrice e, perciò, portatrice di speranza. E che, quindi, anche se non appare nell’immediato, di un futuro che sarà senz’altro migliore dell’oggi.
Marianna Micheluzzi (Ukundimana)
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