Cominciamo dal Sudafrica che, a partire dal 1880, rappresenta ancora oggi un qualcosa come circa due terzi dell’oro estratto a livello mondiale.
La stessa Johannesburg, manco a dirlo, è stata edificata, a suo tempo, su di un suolo che custodiva nelle profondità delle sue viscere uno dei più grandi giacimenti esistenti al mondo.
E la guerra tra boeri e inglesi (1899-1901), è bene ricordare che ha avuto come motivazione principale la contesa, tra vecchi e nuovi colonizzatori, per l’accaparramento delle proprietà delle miniere.
E, attualmente, le regioni sudafricane dell’Orange e del Transvaal sono ancora, a tutti gli effetti, quelle più interessanti per profondità e ricchezza delle vene.
C’è la Cina, però, potenza economica rampante, che insidia ai nostri giorni questo primato con la realizzazione in totale di appena 260 tonnellate d’oro nel solo 2008.
Il che significa un aumento del 59 % rispetto ai dati, sempre cinesi, del più lontano 2001.
E questo deve far riflettere .
I cinesi, infatti, oggi come oggi, cercano oro in Ghana, in Costa d’Avorio, in Mali , in Tanzania e, persino, nello Zimbabwe di Mugabe.
Praticano un autentico saccheggio del territorio d’Africa.
Senza dire che, chi offre concessioni e stipula contratti (mi riferisco alle lobbie politiche locali), ha comunque un buon tornaconto in termini di soldoni.
Soldoni che prendono immediatamente, al riparo da eventuali cambi di scenari, la fuga all’estero per la realizzazione, “pro domo sua” degli interessati , di proficui investimenti.
Nuovo Eldorado si sta rivelando, in particolare, e anche e sopratutto inaspettatamente, la Costa d’Avorio (progetto Dabakala) ,in cui pare, fatte le adeguate prospezioni, ci siano parecchie zone aurifere.
Superata l’instabilità politica del recente passato (dieci anni addietro), chi giunge e ottiene concessioni sa bene che le rocce ivoriane (Birimian) contemplano riserve per almeno 170 milioni di once.
E, allora, mette radici ben salde lì e non si scolla più.
E lo stesso sta accadendo in Tanzania dove si conta , addirittura, di produrre 450 mila once nei prossimi cinque anni.
E in Mali, dove sta affluendo ultimamente la maggioranza delle compagnie, impedite da regolamenti restrittivi in Burkina Faso, Ghana e Senegal.
Qui fanno faville (luccicano è il caso di dire) i giacimenti di Morila e di Syama con una produzione che non è calata mai, nonostante la guerra del 2013.
Quello che in tutto questo non va è, ovviamente, lo sfruttamento della manodopera locale.
Quando si ricorre a essa. In genere i cinesi non lo fanno. Ci sono eccezioni solo per le mansioni più umili.
Mi riferisco a bambini, costretti ad abbandonare la scuola, per portare a casa una modestissima paga, perché il capofamiglia, molto spesso, ha bisogno assoluto di quel denaro.
E le conseguenze sul fisico di questi bambini e preadolescenti, è superfluo sottolinearlo, sono devastanti, se si tiene conto e delle condizioni di lavoro e del numero esorbitante di ore.
E, soprattutto, dell’assenza di una qualsiasi forma di assistenza medica nel Paese in questione.
In questo gli Stati africani sono proprio come le tre scimmiette, che non vedono, non sentono e non parlano.
Sono, però, di mano lunga e intascano.
Perché in Africa tutto si paga. E anche piuttosto salato.
Dalla scuola all’assistenza sanitaria, all’affitto sulle terre da poter lavorare, se si è contadini, e ad altre numerose gabelle, che spuntano, magari inattese, proprio come funghi dopo la consueta pioggia di stagione.
E pagano anche i poveri.
Essi , infatti, non sanno cos’è l’Eldorado.
Marianna Micheluzzi (Ukundimana)
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