IL PROTOCOLLO DI MAPUTO OVVERO UN NEOCOLONIALISMO CULTURAL-GIURIDICO
Che cos’è il Protocollo di Maputo e perché parlarne?
Si tratta di un documento sui diritti delle donne in Africa , adottato dall’Unione Africana l’11 luglio del 2003, appunto a Maputo, capitale del Mozambico.
In esso sono elencati tutta una serie di diritti, che riguardano la donna africana e soprattutto la donna in quanto madre.
Si parla di diritto alla dignità, alla vita, all’integrità psichica, del diritto all’eredità alla morte del marito.Si chiarisce la posizione della donna in merito all’istruzione, al possesso della terra, al matrimonio e alla pianificazione familiare.
Tutti aspetti importantissimi per la donna in Africa che di tutele, tolte quelle del clan familiare, ne ha sempre avute davvero molto poche.
Il documento , fino ad oggi, è stato firmato da 42 Paesi dell’Unione Africana ma è ratificato solo da 27.
Questa “Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli in relazione ai diritti della donna”, è questa la denominazione corretta, in Africa tuttavia non piace e suscita parecchie contestazioni nei più disparati ambienti.
Che cos’ ha che non va?
Per i più, mi riferisco a contesti africani, taluni articoli del documento impongono con accento neocoloniale una mentalità antinatalista ed antiafricana- essi sostengono – camuffata abilmente da una lodevole preoccupazione per il benessere delle donne.
Si riconosce sostanzialmente che il Protocollo di Maputo, per l’Africa e le donne africane, costituisce un notevole passo avanti, giuricamente parlando e in considerazione del fatto che prima c’era solo il vuoto legislativo e le “leggi” della tradizione, ma si vuole ben altro.
Senza negarne la volontà politica positiva , occorre quasi certamente, da parte di chi ha redatto il testo, a giudizio dei più, guardare meglio e da vicino a quella che è l’antropologia africana.
Ossia l’ essere uomo e/o donna in Africa.L’essere famiglia e famiglia allargata in Africa.
Molto importanti, senz’ombra di dubbio, risultano essere quei paragrafi che riguardano le mutilazioni genitali femminili, pratiche barbariche per l’Occidente, eppure talora difese, come appartenenti alla tradizione, persino da alcuni intellettuali africani formatisi i in Europa.
Sotto accusa è invece l’articolo 14,il quale, ad esempio, legittima l’aborto autonomamente scelto dalla donna in una società ,dove tutto è orientato verso la dimensione comunitaria.
Bisogna infatti anche saper fare dei distinguo, proprio antropologicamente ma soprattutto sociologicamente parlando.
Esiste la donna africana colta, emancipata, che vive la grande città. E ci sono le donne africane dei villaggi rurali, che sfacchinano dalla mattina alla sera, in assenza spesso dell’uomo, per allevare e far crescere dignitosamente la numerosa prole.
Non c’è, dunque, niente di semplice sia che ci si pronunci in positivo sia che si muovano critiche al Protocollo di Maputo.
La complessità è notevole proprio perché le Afriche sono tante .E tutte le donne africane, senza distinguo, vanno tutelate.
Il colonialismo culturale degli europei ha sempre giocato in passato un ruolo molto negativo nei confronti dei giovani Paesi africani, nati dalle indipendenze degli anni ’60.
Le stesse Costituzioni dei nuovi Stati, oggi, sono state imposte, bene o male, dai Paesi del Nord del mondo. E il dominio delle grandi potenze ex-coloniali si è così perpetuato in maniera soft.
Inutile sottolineare quindi il discorso dello sfruttamento delle materie prime in cambio di autentica “elemosina” per la gente del luogo.
Quei politici africani poi, che vogliono mettere a punto programmi, che vadano a favore delle loro popolazioni, non è raro che vengano tacciati di “comunismo” o “integralismo religioso”.
Insomma un serpente che si morde la coda.
Allora poiché l’autoriscatto e l’autosviluppo dell’Africa può solo verificarsi favorendo tutte le organizzazioni che formano la società civile, le quali sono anche, di contro ai governi menefefreghisti, le uniche in grado di ascoltare i reali bisogni della gente, e quindi delle “donne”, consentiamo loro questo importante ruolo d’interlocutore.
Ossia permettiamo ai diversi Paesi africani, proprio in nome delle peculiarità proprie, di legiferare, in materia di “vita”, autonomamente.
Il tema è delicato, si sa. E soprattutto c’è da tenere conto che l’Africa si ribella alle logiche antinataliste.
Perciò impariamo a rispettare, prima di ogni altra cosa, la “cultura” dei popoli.
Bene dunque il Protocollo Maputo ma rivisitato alla luce delle autentiche esigenze dell’Africa e delle africane.
Marianna Micheluzzi
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